The great tea robbery: come l'Inghilterra rubò il tè alla Cina.

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Il 16 dicembre 1773, come atto di protesta nei confronti dei colonizzatori britannici, un gruppo di giovani nordamericani abbordò alcune navi inglesi ormeggiate nel porto di Boston e ne versò in mare l’intero carico. Quarantadue casse di tè dal valore di circa tre milioni di euro di oggi. Al di là del danno economico subito, il gesto venne considerato “alto tradimento”. Il tè era una faccenda seria per gli inglesi. Di lì a poco, per la loro amata bevanda, avrebbero combattuto una guerra e reso oppiomane un’intera nazione.

Tutti pazzi per il tè

Il tè viene menzionato per la prima volta in Europa in un resoconto di viaggio. Un padre domenicano descriveva una singolare “acqua rossa e molto terapeutica” ricavata da una pianta coltivata esclusivamente in Cina. Soltanto molti anni dopo il tè arrivò in Inghilterra. Per i britannici fu amore al primo sorso. Al Tcha, come lo chiamavano i cinesi, o China Drink, come lo avevano ribattezzato gli inglesi, venivano attribuite proprietà benefiche di ogni tipo. Secondo i medici dell’epoca, il tè dava vigore al corpo, era ottimo contro calcoli biliari, asma, raffreddori, problemi agli occhi e aiutava a restare vigili nei momenti in cui ce n’era bisogno. Qualsivoglia fossero i suoi benefici, i cinesi proteggevano le piantagioni di tè come un prezioso segreto e agli stranieri era vietato visitare le zone di produzione. D’altronde, il commercio delle foglie era per loro un affare molto redditizio.

A metà del 1600, nei mercati londinesi un etto di tè costava circa 100 euro di oggi. Nei due secoli successivi il prezzo scese e il numero di consumatori si allargò enormemente. In epoca Vittoriana l’Inghilterra importava dalla Cina oltre due milioni di chili di tè all’anno. Ormai non c’era un solo suddito della regina che non bevesse una tazza di tè. Per gli inglesi stava diventando un problema. I mercanti cinesi accettavano pagamenti soltanto in oro e argento, e in Inghilterra iniziavano a scarseggiare. Così il parlamento di Londra fu costretto a trovare una soluzione creativa.

Pianta del te – Foto: public domain

Missione oppio

In passato i cinesi avevano avuto qualche problema con l’oppio. Quando l’imperatore vietò il tabacco da fumo, la popolazione lo sostituì con lo stupefacente, importato dai paesi vicini e fino ad allora aggiunto alle pipe soltanto in piccole quantità. Per arrestare questa preoccupante abitudine, il governo rese l’oppio illegale e ne proibì l’importazione. Tuttavia la domanda non era calata. Mancava soltanto un buon fornitore. Se pagare con oro e argento era diventato un problema, gli inglesi di oppio ne avevano a tonnellate nelle loro piantagioni del Bengala. In pochi decenni, il traffico illegale d’oppio dall’India alla Cina passò da 60 a 1500 tonnellate l’anno. Per permettersi una tazza di tè, l’Inghilterra stava trasformando i cinesi in un popolo di oppiomani, con conseguenze sociali ed economiche disastrose.

La situazione era insostenibile. Il governo cinese iniziò a intercettare e distruggere la quasi totalità dei carichi illegali. Per un intero anno, la tradizione del tè delle cinque fu a rischio. Così come la vita dei trafficanti inglesi arrestati nei porti di Shangai e Canton. Per difendere i propri interessi commerciali e i loro connazionali, i britannici scatenarono il primo dei due conflitti conosciuti come Guerre dell’Oppio. La Royal Navy inflisse una pesante sconfitta alla Cina. L’imperatore fu costretto a pagare alla regina Vittoria un indennizzo per i carichi distrutti, a cedere la sovranità sull’isola di Hong Kong, e ad accordare agli inglesi cinque porti in cui i loro cittadini potevano commerciare senza limiti qualsiasi sostanza.

Fumatori d’oppio – Foto: public domain

Il cacciatore di tè

Ciò nonostante l’approvvigionamento del tè continuava a rimanere un problema. L’unica vera soluzione per far fronte a una richiesta sempre maggiore era quella di rendersi indipendenti. In alcune zone dell’India, c’era il clima ideale per avviare delle coltivazioni. Ma la guerra aveva portato i cinesi a custodire il segreto del tè ancora più gelosamente. Se uno straniero mostrava anche soltanto il desiderio di avvicinarsi alle zone di produzione rischiava l’arresto o la morte. Ma se fosse stato un cinese a rubare il segreto del tè?

Robert Fortune, uno dei più importanti cacciatori di piante britannici non era d’accordo. Chi avrebbe garantito che le piante trafugate da uno sconosciuto arrivassero dalle migliori aree di produzione? E senza informazioni dettagliate su clima, terreno e tecniche di coltivazione, si correva il rischio di trovarsi in mano una manciata di foglie utili soltanto per preparare una tazza d’infuso. Il parlamento fu talmente d’accordo che ordinò a Fortune di andare lui stesso a impossessarsi dei segreti del tè.

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Uno strano cinese

Fortune si recò in Cina nelle vesti di esperto botanico per studiare le piante delle aree in cui era permesso l’accesso agli occidentali. Importò in Europa la palma a ventaglio, il kumquat, e diverse specie di azalee. Durante la sua permanenza osservò tradizioni, vita e cultura cinese, da cui rimase profondamente affascinato. Spostandosi al di fuori delle grandi città, notò che era molto difficile passare inosservato. La gente lo seguiva o si riuniva attorno a lui a fissarlo incuriosita. Aveva però l’impressione che fosse più l’abbigliamento della persona ad attirare gli sguardi. Allora perché non provare ad adottare un travestimento per confondersi con la popolazione locale?

Per raggiungere le regioni del tè, Fortune si servì di un espediente semplice quanto geniale. Si rasò i capelli lasciando soltanto un lungo codino. Si fece crescere baffi alla mongola. Indossò abiti tradizionali, un cappello a cono e si finse un mercante cinese. Approfittando delle enormi differenze linguistiche delle diverse province dell’impero, fece finta di provenire da una regione remota e di parlare un dialetto che nessuno riusciva a comprendere. Per sicurezza, comunque, viaggiava con un fucile da caccia e due rivoltelle.

Coltivazione di te – Foto: public domain

Assam, Darjeeling, Mondo.

In pochi anni, Robert Fortune riuscì a trafugare in India oltre 20.000 piante di tè. Dopo aver raccolto più esemplari della stessa varietà, li smistava verso porti diversi facendogli seguire percorsi differenti. Se i cinesi o i pirati avessero intercettato un carico, almeno uno degli altri sarebbe giunto a destinazione. Fortune fece spedire di nascosto in India perfino un contadino cinese, esperto nella coltivazione del tè.

Sfruttando la manodopera indiana fino all’osso, e costringendo i braccianti a lavorare in condizioni igieniche e di salute precarie, l’Inghilterra si liberò del monopolio Cinese. Alla fine dell’ottocento la produzione di Tè dell’Assam e del Darjeeling aveva superato le importazioni, e oggi il tè viene prodotto anche in Bangladesh, Pakistan, India, Indonesia, Sri Lanka, Giappone e Kenya. Grazie a due guerre, tonnellate di oppio, migliaia di Indiani nutriti a pollo e malaria, un brillante botanico di nome Robert Fortune e un anonimo contadino cinese.


Per approfondire:

  • Roy Moxham. Tea: Addiction, Exploitation and Empire. Constable, 2003.

  • Alan Macfarlane e Iris MacFarlane. The Empire of Tea. Abrams, 2009.

  • Robert Fortune. A Journey to the Tea Countries of China : Including Sung-Lo and the Bohea Hills; with a Short Notice of the East India Company’s Tea Plantations in the Himalaya Mountains. London : John Murray, 1852.

  • Robert Fortune. Three Years’ Wanderings in the Northern Provinces of China: Including a Visit to the Tea, Silk, and Cotton Countries; with an Account of the Agriculture and Horticulture of the Chinese, New Plants, Etc. J. Murray, 1847.