Il tratto di mare a largo di pointe du Raz, in Bretagna, è costellato da una miriade di secche, scogli e isolotti che restano nascosti sotto il pelo dell’acqua o affiorano di pochi metri, comparendo e scomparendo tra le onde. Un inferno per le navi che fino a due secoli fa dovevano attraversarlo senza avere un punto di riferimento preciso per evitarli. Certo, c’erano i fari dell’île-de-Sein e quelli sulla costa ma bisognava calcolare minuziosamente rotte e allineamenti e non sempre si era in grado di stabilire con precisione a quale distanza ci si trovasse dal pericolo. E questo soltanto nei giorni in cui il cielo era terso, una condizione rara nei mari del nord. Il più delle volte, il bagliore delle lanterne veniva inghiottito dalla nebbia. Per evitare di affidare la loro salvezza solo al caso, i comandanti delle navi facevano salire a bordo un pilota locale in grado di attraversare gli stretti e invisibili canali tra una roccia e l’altra, affidandosi alla memoria e ai pochi scogli che emergevano tra i flutti. Ciò nonostante, erano numerose le navi che affondavano in quel tratto di mare.
L’inferno di Joly
Per risolvere il problema, la Commissione dei Fari di Bretagna affidò al giovane ingegnere Paul Joly il compito di costruire un nuovo inferno. Perché ci sono tre termini con cui i guardiani dei fari bretoni indicano il faro in cui lavorano. Se è sulla terraferma è il paradiso, su un’isola è il purgatorio, ma se ti tocca un faro in mare aperto… Beh, allora sei finito all’inferno.
Joly esplorò miglio dopo miglio la zona alla ricerca di una roccia o di uno scoglio adatto a costruire una torre di pietra, alta più di trenta metri, in un’area sferzata costantemente da cavalloni giganteschi. Dopo due anni, l’ingegnere scrisse nella sua relazione: «È impossibile! Nell’area non si possono installare nemmeno segnalazioni galleggianti perché non c’è modo di ancorarle. Il fondale è troppo profondo e le burrasche troppo violente». Le sue conclusioni, però, non piacquero alle autorità marittime francesi, impazienti di realizzare una linea transatlantica tra Brest e New York. Il nuovo faro andava costruito a ogni costo.
Tra i tanti scogli visitati dal giovane ingegnere ce n’era uno che i Bretoni chiamavano Ar-Men, “la roccia”. Si trovava sei miglia a largo dell’île-de-Sein, dodici dalla terraferma. Uno scoglio largo pochi metri che emergeva a malapena dal mare, sul quale si abbattevano continuamente onde altissime e possenti. «Impossibile costruirvi sopra qualsiasi cosa», aveva appuntato l’ingegnere nel suo rapporto. Ma quando l’anno successivo la Commissione Fari lo inviò ad Ar-Men per una nuova verifica, Joly capì che la decisione era già stata presa. Quel cantiere sarebbe stato per lui un vero inferno.
Gli operai potevano sbarcare sullo scoglio soltanto quando le condizioni del mare lo consentivano. Si lavorava a squadre di due, indossando espadrillas con suole di corda e ancorandosi alla roccia con cinture di cuoio. Quando l’operaio di vedetta urlava “Onda anomala”, i compagni si sdraiavano a pancia in giù e aprivano le braccia, per evitare di essere spazzati via. Durante il primo anno, sul registro di cantiere vennero riportate 100 ore di servizio, di cui appena 8 di lavoro effettivo, e furono realizzati soltanto quindici buchi. Dopo due anni si riuscì a costruire una base in cemento, ma ogni qualvolta si finiva qualcosa, il giorno dopo c’era qualcosa da rifare. Il 18 febbraio del 1881, trascorsi quindici anni dall’inizio dei lavori, la grande torre bianca e nera, con la scritta “Ar-Men” sulla facciata era stata completata, ma la struttura si era rivelata fin da subito troppo leggera per resistere alle onde e fu necessario allestire un nuovo cantiere per rafforzarla. Trascorsero altri 21 anni e, nel 1902, il faro di Ar-Men poté finalmente rischiarare il buio dell’oceano. I guardiani che vi lavoravano lo ribattezzarono l’inferno degli inferni.
Tre uomini all’inferno
All’epoca in cui entrò in servizio, tre uomini vivevano all’interno del faro, 24 ore su 24. Si occupavano di piccoli lavori di manutenzione e nel tempo libero dipingevano o realizzavano navi in bottiglia, un’occupazione tipica dei guardiani dei fari. La sera, salivano in cima alla torre e mettevano in funzione la lanterna, ma quando la visibilità era insufficiente perché la sola luce bastasse a indicare il pericolo, bisognava azionare la sirena della nebbia, un potente segnale sonoro che si sentiva lontano miglia. La permanenza in quell’inferno era ancora più insopportabile quando i guardiani erano costretti ad ascoltare quel suono assordante e spettrale per ore. Ogni turno di lavoro durava 30 giorni ma se le condizioni del mare erano avverse si rischiava di rimanere isolati per molto più tempo.
La tempesta che infuriò il 15 dicembre del 1923 era così forte che, a ogni onda, vibrava l’intera struttura. I guardiani di Ar-Men non ricevevano viveri da ventisei giorni. Le navi che avrebbero dovuto rifornirli non erano nemmeno riuscite a salpare e i tre uomini erano stati costretti ad aprire le provviste di riserva: gallette secche e brodo in lattina. François Le Pape, il più giovane, aveva la febbre da giorni. Nonostante i suoi ventisei anni, il freddo e l’umidità gli avevano risvegliato il dolore alle ossa che si portava dietro da quando aveva combattuto durante la prima guerra mondiale, un’esperienza che gli era costata anche una gamba.
Benché fosse zoppo e ammalato, alle tre e mezza del mattino, Le Pape salì in cima alla torre per accendere la lanterna. Il collega Hervè Menou lo seguì per dargli una mano. Alle quattro e trentacinque minuti, il faro di Ar- Men emise i primi lampi, tre ogni 20 secondi. Alle cinque del mattino, anche il terzo uomo, Henri Loussouarn raggiunse i compagni per avvisarli che aveva appena messo sul fuoco una bevanda calda. I tre si fermarono per un momento a osservare dalla finestra una nave che passava lontano, all’orizzonte, sfidando le onde. Due anni prima, un altro guardiano, Sebastien Plozennac, come loro stava guardando una nave di passaggio mentre era in piedi sulla piattaforma in cemento, appena fuori dalla porta del faro, quando un’onda improvvisa lo inghiottì e lo portò via, per sempre. Quell’episodio aveva insegnato a Le Pape, Menou e Loussouarn a non azzardare, non attardarsi, non distrarsi, nemmeno per un momento. Ma la stanchezza, la solitudine e la fame possono giocare brutti scherzi. Ad esempio, far dimenticare una bevanda calda sul fuoco.
La stanza della lanterna fu invasa da un fumo denso e soffocante. Il tubo della stufa in cucina aveva preso fuoco e le fiamme si erano già diffuse alle scale, impedendo ai guardiani di scendere al piano inferiore per provare a domarle. L’incendio venne avvistato dall’île-de-Sein. Le prime a dare l’allarme furono le mogli di Le Pape e Loussouarn. Non erano riuscite ad addormentarsi, tormentate dal pensiero dei mariti bloccati dalla tempesta, e avevano notato il bagliore dell’incendio tra le nuvole cariche di pioggia. Per tutta la notte si tentò di inviare un battello per salvare gli uomini intrappolati in quell’inferno, ma le condizioni del mare non lo permisero. Alle prime luci dell’alba, il fuoco visibile dall’île-de-Sein sembrava essersi affievolito ma nessuno era in grado di dire quale fosse il destino di Le Pape, Menou e Loussouarn.
I tre erano miracolosamente salvi. Si erano calati dalla finestra aggrappandosi al cavo del parafulmine fino a raggiungere la piattaforma esterna, alla base della torre, la stessa dove, due anni prima, il loro collega Sebastien Plozennac era morto, travolto da un’onda. Aiutandosi con secchiate di acqua di mare, Le Pape, Menou e Loussouarn avevano spento il fuoco e raggiunto la cucina. Le stanze erano completamente carbonizzate e i tre uomini trascorsero ancora diversi giorni al freddo e senza viveri prima che un rimorchiatore riuscisse a salpare dal porto di Brest per recuperarli.
Nel 1990 il faro di Ar-Men è stato automatizzato. Non ci sono più guardiani che dipingono o costruiscono navi in bottiglia. Una volta al mese, un operaio arriva in elicottero per eseguire piccoli lavori di manutenzione e resta soltanto per poche ore. Ma di notte, la torre bianca e nera con la scritta “Ar-Men” che campeggia sulla facciata, a sei miglia dall’île-de-Sein, 12 miglia dalla terraferma, continua a fare in modo che le navi attraversino in sicurezza il tratto di mare a largo di pointe du Raz. E quando il bagliore della lanterna viene inghiottito dalla nebbia, si sente ancora il suono assordante e spettrale della sirena.
Per approfondire:
Ch. Leger. «Le Phare En Feu». La Dépêche de Brest, 18 dicembre 1923.
Charles Boissay. «Le phare d’Ar-Men». La Nature – Revue de Science, vol. 25, 1873, pagg. 387–90.
Émile Condroyer. Les hommes dans la tempête. FeniXX, 1992.
Georges Fleury. Le grand courage. Grasset, 1988.
Hervé Hamon. Dictionnaire amoureux des îles. Place des éditeurs, 2020.
Jean-Christophe Fichou. Gardiens de phares: 1798-1939. Presses universitaires de Rennes, 2015.
Jean-Christophe Fichou. «Le chantier de la construction du phare d’Armen, 1867-1881». Livraisons de l’histoire de l’architecture, n. 16, 16, dicembre 2008, pagg. 109–24.
Le Génie civil. Revue générale des industries françaises et étrangères, pag. 26.
«Le Magasin pittoresque». 1879